Il travaso delle idee
24 marzo. 2020
A volte succede che “scappi la verità”. Anche a una persona attenta “a come tira il vento” della politica, e che ha un ruolo di primo piano nella sanità polesana, vicino ad Antonio Compostella, direttore generale dell’Ulss n 5. Che sarà impallidito leggendo il pubblico sfogo di Luca Prando, presidente del comitato dei 41 sindaci del Distretto 1 Rovigo, e sindaco del comune di Lusia, “paese degli orti”. “Mettiamoci in salvo, non affidiamo la nostra salute alle proclamate mascherine…sono in tessuto non tessuto e monouso…”, aveva affermato. Dichiarazioni sincere, credo. Cui probabilmente avrebbe dovuto aggiungere che hanno anche un altro obiettivo: spot di efficientismo elettorale. Un “peccato veniale”, quello di Prando, in questo momento dove regna il panico tra i veneti, e dove piuttosto di niente è meglio piuttosto. Il risultato immediato è aver probabilmente prodotto una abbondante secrezione biliare, rendendo il manager della sanità polesana “verde di rabbia”, politica. Le critiche erano indirettamente rivolte nei riguardi del suo leader leghista Veneto, Luca Zaia, che da giorni aveva promozionato, urbi et orbi, le innovative mascherine con ben stampato il logo della Regione. Prodotte e donate da un benefattore e utilizzate oggi per ben altri scopi delle “baute”, le antiche maschere facciali veneziane indossate dai partecipanti il carnevale. Un inatteso fendente che deve aver colpito al cuore il responsabile della sanità polesana che pallido, ma soprattutto “verde”, lo era da tempo, perché “iscritto dal 1996 come SOM alla Lega Nord Liga Veneta”, si legge sul suo curriculum vitae. Uno sgarro che, in questo tempo convulso, non farà certo piacere al governatore che si sta facendo in quattro per contrastare il coronavirus. Infatti, dopo le prime dichiarazioni dell’8 marzo in cui chiedeva lo “stralcio dalla zona rossa” delle province di Padova, Venezia e Treviso, ha poi virato sostenendo che”… chiudere tutto può essere utile…”. Tra i politici si chiama diversità nella continuità, e non rimangiarsi le parole. Una abilità certificata per questo abile politico che primeggia nel gradimento tra i governatori italiani, forgiatosi da giovane nelle discoteche come PR. Dal piglio però diverso dei suoi colleghi leghisti, anche come interprete della storia locale. Se Milano, per esempio, nel 1348, in occasione della pestilenza, decise di barricare porte e finestre delle case infette per rinchiudervi dentro gli abitanti insieme ai malati, decretandone il loro destino, Venezia qualche anno dopo, nel 1403, costruì invece un ospedale dei poveri, per uomini e donne colpiti dalla peste. I futuri lazzaretti. Sempre in quel periodo, a Ragusa, un magistrato aveva ordinato che, prima di entrare in città, ogni persona proveniente da un luogo infetto trascorresse un mese nell’isola di Mercano. Venezia imitò tale provvedimento, aumentandolo però a quaranta giorni. Nacque così la famosa “quarantena”. Oggi, quella che fu la potentissima Serenissima, trema. Dapprima vittima sfregiata da quel mare che un tempo l’aveva resa regina del commercio; ora segnata dalla pandemia, si interroga sul suo futuro. Lo fa dallo storico ponte di Rialto, mentre passa una gondola: “…Ehi! Della gondola/ Qual novità? Il morbo infuria…./ il pan ci manca../ Sul ponte sventolano le mascherine bianche”.
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